Teatro

    Bisognerebbe scrivere molte pagine per raccontare il Teatro di Franco Di Francescantonio, la sua arte, il suo mix di tecnica precisa e raffinata e di umanità calda e comunicativa.
    Difficilmente si poteva rimanere indifferenti assistendo ad uno spettacolo con Franco, in particolar modo assistendo ad uno dei "suoi" spettacoli, ai suoi monologhi, "Lettera al padre", "La voce umana", "Perle rare", "Confessione", "Recitarcanzoni"..., spettacoli nei quali Franco ha sempre espresso una poetica del palcoscenico molto personale, fatta di parole, intonazioni, gesti, movimenti estremamente definiti che scolpivano e cesellavano lo spazio comunicativo fra lui e lo spettatore, facendosi veicolo di denso significato e profonda sensibilità.
    Come sempre, l'esperienza individuale e personale non è sostituibile, non ci sono parole che possano restituire l'emozione e l'intensità che si potevano sperimentare ad uno spettacolo di Franco. Quelle che riportiamo qui sotto sono le parole uscite di getto dalla penna dello scrittore Marco Vichi, amico di lunga data di Franco, dopo aver assistito ad una replica di "Lettera al padre", che costituì, all'epoca, la sua prima esperienza, il suo primo incontro con il Teatro di Franco Di Francescantonio.


    “Ho visto raccontare una lettera, o meglio: ho visto come nasce una lettera scritta al proprio padre con cui non si riesce a parlare. Kafka. Letteratura in teatro: una cosa difficile. Avevo pregiudizi. Molti. Tutti spazzati via già nei primi minuti. Una lettera, insomma. L’avevo letta molti anni prima, quella lettera, camminando su e giù per la stanza, perché seduto non potevo stare, perché per certe analogie era come se l'avessi scritta io. E ora la ritrovo qui, sopra un palco. Parole pronunciate con apprensione, parole evocate, parole impossibili da dire a parole. Dopo stasera, per me, Kafka ha un'ombra in meno, e molte in più. Non ho visto la solita solitudine proverbiale di Kafka (costretto anche lui, spesso, a diventare kafkiano) che a volte appare silenziosa, vuota, quasi come una morte. No, non quella. Ho trovato la solitudine viva di un uomo consapevole, capace di parlare con il mondo, anche se non di unirsi a lui. Un uomo pieno di vita e di sogni, di desideri muti. Non ricordo di aver mai provato, in un teatro, tante emozioni in così poco tempo... un'ora che sembra un minuto. Emozioni che sembravano scaturire dalle zone più profonde di me, dove la coscienza non può arrivare. Scariche di brividi, semplici brividi, dalla nuca alle caviglie, quei brividi che sento quando la ragione cede la parola al sangue, quando dentro di me dico: "Sì, è così, è così...” senza che sia possibile aggiungere altro. Ma ho anche riso, riso forte, senza potermi trattenere. Ho riso nello stomaco, mordendomi le labbra. Una cosa che mi succede senza scampo davanti alle verità umane, quando mi sembra di capire qualcosa di nuovo che fino a quel momento percepivo soltanto come un odore: il piacere di conoscere qualcosa in più dell'uomo, i suoi aspetti più tragici, ma anche i più dolci. Purché veri. Ma ho riso anche nella mente, perché sul palco e dentro di me c'era lo stesso Kafka: ho riso di complicità, ho riso per affinità, per un senso profondo d'intesa. Ho riso come quando mi trovo davanti qualcuno che ama le stesse cose che amo. E ho gridato. Insieme all'insetto ribelle e timoroso ho gridato, ho stretto i pugni e ho avuto paura, con la gola chiusa: anzi ero io che aprivo la bocca, io che scagliavo via i manoscritti. In altri momenti, se avessi dato retta all’impulso, mi sarei buttato in ginocchio a contare le lacrime. C’è modo e modo di dire "mamma". È la parola più semplice, la prima che ognuno ha detto. C’è qualcosa di assoluto in quella parola, e a pronunciarla si rischia di diventare patetici, o magari finti, e spesso (unico rimedio) ci si salva con l'ironia. Non Kafka. Non Di Francescantonio. Quella semplice parola, mamma, mi ha investito con tutta la sua potenza. Ma potente era ogni momento dello spettacolo. Sono stato catturato da quella magia di identificazione e scoperta di sé che secondo Aristotele il teatro riesce a creare. Il testo è fondamentale, ma l’attore lo è altrettanto. In questa lettera a suo padre, Kafka riprova a essere uomo, smette di contarsi le zampette e cerca una pace che non trova. Ha troppa forza dentro di sé‚ per essere in pace con il mondo, troppa profondità per diventare “normale”. Inadatto alla vita, soffre e gioisce di queste sue limitazioni, consapevolmente. Nello spettacolo ci sono anche momenti di effetto assai potenti, e mai inutili. Ma la vera passione di Di Francescantonio la vedo nella capacità di affidare ai gesti più semplici, più insignificanti, il compito di far trapelare con evidenza sentimenti nascosti. Non è da tutti quella capacità con cui un popolo intero di emozioni, di visioni, di fantasmi, viene cacciato via con un gesto: una mano che passa nervosamente sullo stomaco, un movimento del collo, o il sistemarsi continuo della camicia che trasmette al di là della ragione il tentativo di rientrare con urgenza nell'armonia, nella calma. Quella convinzione, quel “momento giusto”, hanno una potenza difficile da spiegare. Sopra il palco di un teatro si finge il vero, e lo si deve fare fino in fondo: un attimo di debolezza, di poca convinzione, e tutto precipita nell’inconsistenza. E' fatale. Quando si urla, o si urla davvero, dal profondo, o si diventa immediatamente ridicoli. Quando si piange, o si ride, o ci si dispera, nessuno deve dubitarne, altrimenti è l’indifferenza a salire sul proscenio. Esigente come sono, ho cercato durante lo spettacolo un attimo di cedimento, di caduta... ne avevo paura e al tempo stesso forse lo desideravo: ma non l’ho trovato. Quando mi cibo di libri o di spettacoli sono polemico, magari anche amaro, forse cattivo. Un neo lo faccio diventare una piaga. Non mi piace sprecare parole, se non mi vengono dal sangue. Ma posso dire che "Lettera al Padre" è uno spettacolo straordinario, che non dimenticherò finché vivo".

    Marco Vichi


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